Le mani e la notte
di
Marco Goldin

 

Serena Nono ha dipinto, nel 1996, una Pietà molto bella, di medie dimensioni, ma per lei insolitamente ampie, ottanta per sessanta. Il costato di Cristo abbagliato di un lume come di grano maturo alla fine di giugno, il tendaggio rosso di una densa foschia che precipita, si aggroviglia. Su tutto questo sta, come un’apparizione ancor più sacra, il braccio ritirato di Maria, la sua mano distesa. Come in un affresco di Pompei, l’immagine è tutto, centro e solitudine della scena, umano soprassalto, desiderio di nuova conoscenza. Prima di entrarvi, si capisce che del sottofondo religioso non accetta lo spasimo confessionale, puntando invece sullo smisurato spazio di quel corpo che occupa l’universo con il desiderio di provare a rivelarne almeno qualche misura. In anticipo di qualche anno su ciclo della Passione che ha appena concluso, segna un primo punto d’arrivo di un cammino tormentato e aspro, tutto scavato in anfratti, scoscendimenti, cicli della luce e buio improvviso.
Veniva, quel quadro, nel mezzo di un gruppo di opere aurorali, dove il senso della vita confondeva, e fondeva, continuamente con il senso acquatico della morte. Il regno di un oltretomba frequentato dai vivi, dove i corpi erano volti, mani, mezze figure, teste reclinate sprofondate dentro una nebbia rugosa, più spesso color della pece ma anche sulfurea in certe sue accensioni colanti. Muri sbiaditi, percorsi dalla salsedine del mare, dal verde delle alghe, dal tramonto che dilaga dentro le malte corrose. C’era in Serena Nono il gusto di tatuare la vita, renderla sempre colma di presenze. Eppure ha lavorato subito con l’assenza, pittura afasica, svuotata di ogni contorno, quando la realtà si incide nella carne come una punta dolorosa, e non è solo realtà ma anche pensiero, visione, sogno concluso.
Ci sono nella sua pittura immagini che escono da un buio immenso, oltre ogni possibile comprensione umana e forse è impossibile capire se in quel preciso momento vi escano o non stiano invece affondandovi per sempre. E allora la pittura sarebbe il senso finale di un racconto, l’esito di un viaggio, la sua previsione prima che ogni cosa definitivamente sia. Non che questa pittura sia pittura per l’Apocalisse, ma ha in sé una carica di verità come raramente occorre di vedere nel nostro tempo confuso e macerato. Macerata anche la pittura, quel suo lasciarsi erodere da eventi atmosferici che subito diventano un fatto dell’anima, ne sono il colore dipinto, il colore steso, il colore rappreso. L’orizzonte non è altro che il corpo, l’increspata linea di confine, la pressione della realtà sullo spazio altrimenti vuoto.Serena Nono ha bisogno di prendere la parola e dire una storia. Bisogno perché un punto vi sia di attraversamento, e segnato il passo il barlume arrugginito di un corpo resti come segnale di un passaggio, presenza dentro una più grande presenza.

Marco Goldin
Dal catalogo Figure, Lineadombra libri, 2002