Le figure della discrezione
di Mario Fortunato


La donna è accovacciata, nuda. Guarda verso l’alto. Tutto il suo corpo vorrebbe spiccare da terra: le mani perdute oltre la superficie del quadro, i capelli confusi alla linea delle spalle, la bocca serrata prima dello scatto.
Accanto a questa donna, al suo gesto ancora potenziale e già in qualche modo visibile, ecco un’altra figura femminile che però sembra appartenere ( o almeno aspira) al mondo della quiete, della stasi. Suo unico desiderio, sua estrema volizione, un reclinare il capo, l’abbandono del volto, come si trattasse di un oggetto pesante, grave, fra le mani unite a coppa. In entrambi i casi, in tutte e due le tele, un fondo scuro, terreo, che talvolta digrada appena verso qualcosa di più chiaro, una specie di allusione marina.
In fondo, le donne che popolano le opere di Serena Nono sono tutte contenute in questo tragitto: nel tragitto fra il desiderio del moto e una terribile nostalgia per la permanenza. Da un lato riposano, ferme, immobili, ancorate a un sonno lontanissimo e autunnale; d’altro canto aprono gli occhi, allargano le braccia, si piegano a uno strano bagno sotto un getto di capelli, si contorcono. A una prima occhiata, viene voglia di dire che è il dolore il loro stigma. Ma è un’impressione un po’ superficiale. A ben vedere è una certa ritrosia, una virtù discreta e silenziosa, ciò che apparenta i loro corpi. Come se ogni gesto, ogni tratto si palesasse, rendendosi sensibile, solo a partire da questo muto bisogno di segretezza.
Qualcuno ha scritto (anche assai recentemente) che la prima idea di identità che noi occidentali coltiviamo è quella relata al nostro corpo. L’io, in altri termini, coinciderebbe per noi prima di tutto con la fisicità. Anche questi quadri la pensano così. E perciò esplorano il farsi e il disfarsi della materia: mettono in scena una mano, delineano un seno, disegnano un volto, come per indagarne il senso, misurarne il significato. I corpi risaltano perentori e concreti. Eppure, insieme a questa decisa materialità, un tratto evanescente, liquido, li caratterizza il colore, usato con forza, quasi espressionisticamente, all’improvviso sembra sciogliersi, colare via, rifluire. Noi non sappiamo di preciso che cosa tutto questo adombri, né sappiamo perché accada: ne siamo spettatori. Noi siamo gli spettatori di un’incessante mutazione.
Forse, i volti e i corpi di Serena Nono non sono che continui tentativi di un solo autoritratto ( e magari anche per questo non esibiscono titoli). O forse no: quello che più interessa è il carattere transitorio dei lineamenti umani, quasi una metereologia corporale. A ogni modo, è la loro vocazione narrativa ciò che li rende così familiari e così misteriosi.
Anche il loro rapporto con la tradizione sembra dire questo. Le tele di Serena Nono posseggono indubbiamente una qualità classica. Sono subito riconoscibili. Rivendicano, per esempio, delle ascendenze: si pensa a un clima viennese d’inizio secolo, si pensa a Schiele, poi a Kupka. Ma di quella tradizione questi quadri riprendono solo l’oggetto, non il modo di osservare. Lo sguardo che si posa su questi
corpi femminili è uno sguardo radicalmente contemporaneo: si tratta di donne d’oggi; che hanno un rapporto totalmente naturale e totalmente negato con la propria nudità. Sono donne che abitano la fine di un secolo, non il suo principio. Anche se di quel principio non desiderano smarrire il ricordo.
Dicevo prima che in queste tele il fondo ha sempre una compatezza solida, terrestre, che però qui e là sfuma in accenni acquatici. Certo, lo so che è una banalità associare la derivazione dell’acqua dalla terra al fatto che Serena Nono è nata e vive a Venezia. Lo so. Eppure, non è bello che è un’artista trovi il modo di raccontarci il proprio spazio, la propria appartenenza, attraverso segni così semplici e discreti? Forse, alla fine, è proprio questa semplicità, questa discrezione che più mi piace nei quadri di Serena Nono.

Mario Fortunato, da Le figure della discrezione, Giugno 1997