Il dono e il corpo
di
Daniele Del Giudice

 

Parlando del lavoro dell’artista e del suo esito, Jean Starobinski ha fatto ricorso all’immagine del dono: “Il dono è nell’opera come il potere d’oscura provenienza che precede e sostiene il lavoro, o come il futuro dell’opera. Il lavoro stesso, che si aggiunge al mondo, è la spinta di una forza che impone il proprio segno, che si riprende e se ne libera, per riaffermarsi e propagarsi più vigorosamente. Sì, questa invenzione – sovrappiù del visibile – deriva da un dono “interiore”, e se è approvata dall’artista potrà essere offerta nel gesto ultimo che la consegna al lettore o allo spettatore”. Nel caso di Serena Nono, non si tratta solo dell’ovvio dono del talento, per il quale non avrebbe certo bisogno di attestati, né del carattere di “sovrappiù” di visibile, di non previsto, che è proprio di ogni fare dell’arte; penso piuttosto al “dono” come risultato della sua stessa pittura, come sentimento percettivo e complessivo nella nostra visione dei suoi quadri, come esito personalissimo di quel “potere d’oscura provenienza che precede e sostiene il lavoro”, e dell’approdo che in questo caso può ben configurarsi appunto come sentimento del dono.
Dono, ma di che tipo? Esistono doni graziosi o gradevoli o intelligenti o sorprendenti, ma nel rapporto d’efficacia artistica il dono è tale soltanto quando è dono invadente. In altri ambiti è facile indicare esempi di doni “invadenti”, come le tavole della Legge che Mosè riceve due volte. Nel fare dell’arte, il dono più utile, il solo che raggiunge il suo effetto, è proprio il dono invadente, quello che ci riesce difficile collocare, quello che inquieta, che spiazza, e persuade in forza della sua stessa presenza. Così sono i corpi e le figure di Serena Nono. Non lasciatevi ingannare dall’apparente compostezza in se stessi, dal dolore raccolto, dall’accetta-zione, dal sopore del sonno o dal gesto sospeso; è proprio questo che li rende invadenti, tesi verso il fuori di sé (l’esatto contrario di molti discorsi e di molta arte che rivendica il corpo con congrue ferite e abrasioni, trattandolo però alla fine in modo implosivo e intimista, il corpo come “la
mia cameretta”).
Se le parole dono invadente e corpo invadente hanno un fondamento nel
descrivere la pittura di Serena Nono (e credo che l’abbiano), allora capiamo anche la radice e la necessità del suo giungere ad una Passione, comprendiamo la forza e la bellezza di questa “serie”, racconto per tagli, per sbiechi, per omissioni. Per la natura stessa di Colui che qui patisce e l’intenzione contaminante, irradiante, della sua Passione, sarebbe difficile trovare nella Storia altro evento in cui corpo e dono siano altrettanto consustanziali, e così irresistibilmente invadenti.

Daniele Del Giudice