Pensieri erratici da ferme immagini
di Vincenzo Vitiello

A Serena Nono, antidoron

1. En arché ên ho lógos.

È possibile parlare di Dio? La domanda viene troppo tardi. Da sempre l’umanità storica ha parlato di Dio. Ne hanno parlato e ne parlano filosofi e teologi, poeti e santi, fondatori di religioni e visionari, credenti e atei. Parlano di Dio i testi che l’umanità storica, nella pluralità delle fedi, ha volta a volta ritenuto “sacri”. Talora questi testi vengono attribuiti a Dio stesso. Sì, la domanda viene troppo tardi. La parola è all’origine. Ma, se pur viene troppo tardi, non è vana. Tutt’altro. Chiedersi se è possibile parlare di Dio, significa interrogarsi sulle modalità di questo parlare. È possibile parlare di Dio per sillogismi? E “possibile” qui dice: ha senso farlo? Ha senso chiudere Dio in una catena di argomenti e di dimostrazioni? E non si fa qui riferimento soltanto al pensiero umano – che è poi l’unico che conosciamo, in quanto questo solo pratichiamo -; si fa riferimento al pensiero sans frase e senza limitazione. In questione è il rapporto tra l’essere di Dio ed il pensiero, anche il pensiero di Dio. Non è una pretesa umana, troppo umana, pretendere di condizionare l’essere di Dio al pensiero? E per quanto si allarghi e si approfondisca l’essenza del pensare – non resta questo, il pensare, un “attributo” dell’uomo? È dato pensare un pensiero che non sia determinato, definito, anzitutto perché determinante e definiente? È dato pensare Dio come “infinito” e “indeterminato”? Non viene subito la logica a dirci che l'”infinito” è tale per il finito, l'”indeterminato” per il determinato? Non è questa la strategia dei filosofi dell’immanenza? Ed a questa strategia non soccombono i teologi stessi, quando vogliono dimostrare Dio?

2. Ho lógos sarx eghéneto.

Dio non si dimostra, Dio si mostra. Il passaggio dal “dimostrare” al “mostrare” muta il senso ed il valore del “si”: da impersonale lo rende riflessivo. Dio “si” mostra dice: Dio mostra se stesso, rivela sé all’uomo. E nella rivelazione si finitizza, assume forma e aspetto umani, entra nel mondo, parla la lingua degli uomini, mangia pane e vino, si fa ungere i capelli di olio profumato, e ama, ed anche s’adira, quando vede la sua casa profanata dai mercanti – lui che non ha considerato riprovevole prendere cibo alla tavola del pubblicano. Mostrandosi, Dio abbassa se stesso all’uomo, ed eleva l’uomo – il pensiero e i sensi dell’uomo – a sé. Nel finito “si” mostra l’infinito. Mostra qui dice: si fa sentire e vedere e toccare, donandosi all’udito, alla vista e al tatto, ed insieme sottraendovisi. Come a Mosè, cui copre gli occhi passandogli innanzi, o come ai discepoli sulla strada per Emmaus. Lo si vede Dio, poi che è passato. Lo si vede da tergo, perché, come diceva Gregorio di Nissa, il Bene lo si segue, non gli si va in-contro.

3. Non sicut ego volo, sed sicut tu

Di Dio l’uomo parla, secondo verità, narrando. Perché la narrazione è sempre del “passato”, e Dio lo si vede poi che è passato – da dietro, si diceva. Dio occupa la casa della memoria. Ma neppure i palazzi sontuosi della memoria ospitano Dio in pienezza. Ricordare è già parlare, e interpretare. E nessuna interpretazione esaurisce Dio. Nessuna parola il Silenzio di Dio. Neppure la Parola del Figlio. Che nell’ultimo volgersi al Padre, rinuncia anche a se stesso, alla Parola: non come io voglio, ma come tu vuoi. La kenosi della kenosi, per ritornare al Padre. Il Figlio dell’Uomo patisce l’immane dolore di abbandonare il mondo, per riportare il mondo al Padre, per tornare alla destra del Padre, per essere, ora, nella pienezza divina, Figlio di Dio. Anche in ciò Cristo è Uomo e Dio, Dio e Uomo. In ciò: nella preghiera.

4. Eloì, Eloì, lamma sabactani?

L’abbandono è la Grazia del Padre. Che non accoglie il Figlio entro di sé, ma accanto, non lo immedesima a sé, lo tiene, nella prossimità, distinto. Il Figlio non si perfeziona nel Padre, qui il suo dolore infinito, il grido che risuona nell’eternità. Nella memoria eterna del divino. Ma anche l’accoglienza immedesimante, l’accoglienza implosiva, non sarebbe stata senza dolore. Se il Figlio soffre l’abbandono del mondo – ne soffre tanto da scacciare come Satana chi tentava di distoglierlo, ed era Pietro, costui! -, quanto maggiore sarebbe stata la sua sofferenza se il mondo fosse stato cancellato nella consummatio in Unum? Non si ama il mondo senza soffrire – sia che lo si conservi, sia che lo si neghi. Ed è qui la tristezza infinita di Cristo: l’anima mia è triste sino alla morte. Ma il grido dell’abbandono è anche il rendere grazie alla Grazia del Padre. È sofferenza e gioia somme.

Stiamo narrando. Narrando dell’abisso di Dio. Sin dove il nostro narrare è “puro”? Siamo già caduti in eresia? Nell’erramento della distanza? Narrare è pericoloso. Pericoloso dire: Dio è. Pericoloso? O non, piuttosto, peccaminoso? Quale ardire, quale pretesa, e quale ingiuria umana deve sopportare Dio sentendo l’homuncio dire: Dio è!

Contrito, l’homuncio piega il capo. Dice, correggedosi: Dio è possibile. Sorride Dio, la sua pietà vince il giusto sdegno. Attende che l’homuncio si ritiri in se stesso. Ha mandato il Figlio per questo! Non vi ha insegnato a pregare mio Figlio?!

Ergo, Domine, non solum es quo maius cogitari nequit, sed es quiddam maius quam cogitari possit.

5. Domine, es...

L’orante si volge al Padre nella distante prossimità del Tu. Sa che tutto quello che dice del Padre non è del Padre, è suo, perché detto da lui. Sa che la sua parola, pur accolta nel Mistero, non è il Mistero. E tanto non lo è, da poter esserlo. Perché, se la parola, nel suo non-essere il Mistero, si chiudesse alla possibilità che il Mistero in essa si “incarni”, allora si porrebbe non solo di fronte al Mistero, ma di contro ad esso. Si porrebbe nella sua mistificata-mistificante umiltà come l’assoluto altro: Deus contra Deum. Nonché pregare, bestemmierebbe Dio. È, questa, la tracotanza dell’ateo, che imita Satana, simia Dei.

La preghiera parla a Dio, e, parlando a Dio, porta Dio alla parola. Porta Dio alla propria parola, finita, come tutte le parole, perché nomina Tu l’Altro che è Oltre ogni oltre, l’Eccedente, l’Eccessivo, l’Innominabile. E, nominandolo, Gli si approssima. In una prossimità che è custodia di lontananza. E se custodia è amore, amore che risponde all’essere amato dall’Altro, al quale ardisce volgersi col Tu che supera ogni tu, allora questo amore umano, e solo umano, ma sovranamente umano, dice, può e sa dire, una parola soltanto: grazie.

Grazie per tutto quanto hai dato, donato. Grazie per la Grazia dell’abbandono. Per il dono del dolore e della sofferenza; per il dono alto, ed aspro, della morte. Il cristiano non dirà mai con il greco: thanotoîsi mè phynai phériston, meglio per i mortali non nascere. Ripeterà piuttosto con Kirillov: io dico grazie a Dio perché il ragno che si arrampica sul muro, si arrampica sul muro. Ma non affretterà l’opera del Signore. Non oserà porsi al Suo posto.

La preghiera mantiene l’uomo nel mondo proprio quando lo sottrae al mondo. Perciò Gesù ammonisce: próseuxai en tô kryptô. Prega in segreto.

6. Sunt lacrymae rerum

Non so, Serena, se tu preghi in silenzio, o unisci, nell’ekklesia, la tua voce al canto degli altri. So – oîda: per aver visto – che le tue figure oranti pregano nel raccolto secretum del corpo. Anche quando, anzi: proprio allora, quando sono insieme, pregano nel segreto silenzio del volto chino a terra. Solo le mani, congiunte si volgono in alto, all’Alto. Il gesto del corpo significa l’essere nel mondo che non appartiene al mondo. La preghiera crea ed occupa lo spazio metafisico dell’átoponmetaxy, dell’ou-topico frammezzo che sta tra cielo e terra, il senza-luogo che dà spazio alla terra, rapportandola al cielo, il senza-tempo che dà luogo al tempo rapportandolo all’eterno. Von unten auf: dal basso verso. Verso l’alto? Affermarlo sarebbe presunzione, ancora una volta umana, troppo umana presunzione. Chiederlo, osare chiederlo, è umana, umanissima preghiera. Come umana, umanissima è la figura di donna che volge gli occhi in alto, pregando. Li immagino colmi di lagrime. Sunt lacrymae rerum.

7. . du aber bist der Baum.

Risuona nella mia memoria l’eco d’una poesia di Rilke. È la poesia dell’Annunciazione. Parla l’Angelo. È stanco per il lungo viaggio. Ha coperto uno spazio immisurabile: da Dio all’uomo. È entrato nella casa modesta. Manca spazio alla sua veste. L’Annuncio è preghiera, proferita come in un soffio – Ich bin ein Hauch im Hain: nel bosco sono un mite vento -, perché la casa dell’uomo non crolli:

Tu non sei più vicina a Dio

di noi; siamo lontani

tutti. Ma tu hai stupende

benedette le mani.

Nascono chiare a te dal manto,

luminoso contorno:

io sono la rugiada, il giorno,

ma tu, tu sei la pianta.