La pietas del ritratto

 

Seguo il lavoro di Serena Nono da ormai tanti anni. L’ho scoperta nei primi Novanta del secolo scorso – eravamo entrambi poco più che ragazzi. Ricordo che le sue tele – le ricordo soprattutto di piccolo formato – mi diedero l’impressione di provenire direttamente dal fondo scuro e vertiginoso della cultura viennese d’inizio Novecento. Naturalmente sapevo che nonno materno di Serena era Arnold Schönberg, ma non era solo questo particolare genealogico a farmi pensare alla Vienna freudiana della Secession. Le opere di Serena mettevano in campo ritratti bui e materiati, volti, corpi, gesti che parevano emergere da un universo notturno e assorto, che a me pareva discendere dall’opera di Schiele o magari di Kokoschka, qualche volta filtrato dalle contorsioni violente di Bacon o dalla feroce lontananza di Lucian Freud.

Da allora, insomma da una ventina d’anni a questa parte, non ho smesso di tenere d’occhio il lavoro di Serena: non per ragioni professionali, perché non sono un critico d’arte né in generale posso accampare alcuna specifica competenza in materia. Non ho smesso di tenere d’occhio la ricerca di Serena Nono semplicemente perché amo il suo lavoro, perché mi pare di capirlo, perché lo avverto sostanzialmente consanguineo. E questo sentimento è così forte e radicato nella mia testa da farmi comprendere (credo) e rendere sintonico anche il versante religioso della sua ricerca, pur essendo il sottoscritto convintamente (e forse stolidamente) poco incline a ogni tipo di fede. Malgrado ciò, il linguaggio espressivo di Serena Nono mi è talmente vicino da farmi accogliere la sua matrice, in certa misura mistica, come una riflessione e una preghiera su quella forma essenziale e originaria di comunicazione umana che è il sentimento della pietas: qualcosa che mi appartiene e mi prescinde allo stesso tempo.

All’inizio, Serena lavorava molto col lato oscuro del volto umano. I visi sorgevano a poco a poco, quasi tracce di luce in un mondo che era inconoscibile e nero come un senso di colpa. L’identità sembrava quasi un miraggio, una sospensione, o tutt’al più un’ipotesi remota. Le facce che popolavano le tele di Serena erano in un certo senso delle bolle di autocoscienza, in una dimensione priva di spazio, di confini, di determinazioni. Niente coordinate, nessuna certezza. L’identità fluttuava nel vuoto, solo talvolta illuminata e perciò sensibile: quei primi ritratti li ricordo oggi come figure di un qualche abisso sottomarino, vestigia di creature labili, incerte, che chiedevano solo per un attimo la nostra attenzione.

In seguito quei visi si sono strutturati. Hanno cominciato a incarnarsi in corpi, in gesti, in vere e proprie intenzioni. Direi che i ritratti di Serena hanno cominciato a possedere, o almeno a esibire, una dimensione etica. La luce ha preso a stendersi quieta sui lineamenti, a definire l’alto e il basso della scena, a restituire racconto e profondità ai corpi. Il buio iniziale si è così sciolto. Quella specie di grumo doloroso che lo materiava si è alleggerito nei colori odierni. Non me la sento certo di dire che il lavoro di Serena sia ora approdato a una qualche forma di solarità, questo no, eppure una specie di allegria si è impossessata di soppiatto delle sue figure. Che, pur continuando a volgere lo sguardo verso l’alto, verso quella stessa divinità che appariva in passato, più invocata che esperita; o magari ancora una volta reclinando il capo come sotto il peso di una colpa ineluttabile; tuttavia adesso quelle medesime figure hanno una nuova grazia, e dialogano con l’alto e il basso dei loro pensieri (e dei nostri) perfino con un tocco di svagatezza.

Anni fa pensavo che la pittura di Serena Nono fosse essenzialmente una pittura di corpi, di figure, che si tendevano nello spazio con l’obiettivo più o meno manifesto di riposare in se stesse. Non trovando però mai pace, quelle figure mi sembravano condannate a aspirare a un punto di equilibrio o di quiete in larga misura impossibile: e questa era, ai miei occhi, la loro dannazione, come anche la loro estasi. Che cosa è cambiato, rispetto a quel tempo?

Innanzi tutto, quei corpi, quelle figure hanno trovato un luogo in cui risiedere. Non hanno conquistato un vero e proprio paesaggio, ma con la loro presenza, con i loro gesti e posture, se non altro, oggi delineano una dimensione. Mi pare di poter dire che un po’ di quiete è stata raggiunta, finalmente. Direi anche qualcos’altro. Se prima i volti e i corpi ritratti da Serena sembravano quasi soltanto rivolgersi a una divinità tutta interna, muta, solitaria, adesso il loro sguardo è più orizzontale, più rivolto alle cose concrete, terrene. E se vi è ancora traccia di una divinità, questa divinità si incarna ormai completamente nel prossimo, nell’imperfezione di un volto mutevole e contraddittorio.

Credo che, se fossi un critico o almeno uno storico della cultura, potrei azzardarmi a scrivere che la ricerca di Serena Nono si è spostata dal territorio iniziale della poesia, che è una forma espressiva intransigente e assoluta, in quello odierno del romanzo, che invece è un’arte più umile e intrinsecamente democratica. In altre parole, i suoi personaggi non sono più folgorati dall’alto, hanno abbandonato la loro radicalità, sono scesi dalla croce della solitudine e dell’anomia. Guardano invece di fronte a sé nella luce discreta della comprensione e della tenerezza. Accennano un gesto, si sporgono oltre la tela. E noi spettatori vorremmo metterci accanto a loro, seduti alla stessa tavola, per spezzare lo stesso pane.

 

Mario Fortunato