Anima mundi

Note per Serena Nono

Riconoscere, nel brivido di un incontro, il senso profondo della condivisione, come spartire il pane. E trattenere il respiro, per la gioia.

Amo l’arte di Serena Nono per la realtà di cui è portatrice, una realtà commovente. La amo per la spiritualità profonda di cui è intrisa, un sentimento del sacro che trascende ogni confessione religiosa, pur essendo molto legato alle radici. La amo per la plasticità marmorea ed aerea ad un tempo delle sue donne, per il racconto che sottende, quotidiano ed universale. Come pietra di carne, il frutto della trasformazione: il peso, lo spazio circoscritto, il corpo fatale e l’unità. Occorrono occhi terreni, ma abituati alle sfumature della luce, per ammirare la preghiera incarnata: ogni sua donna è madre e creatura del Creatore.

Non posso fare a meno di pensare con commozione ad un film – non l’unico – che Serena ha realizzato con gli amici della Casa dell’Ospitalità di Venezia, Via della Croce: ogni donna è Maria, ciascuna è portatrice di una dignità altissima. Maria dell’alba, di ogni nutrimento umano, di ogni faticoso amore, madre terra, madre luce, culla, guancia rotonda di ogni dolore.

Quest’orizzonte è puro, al confine del mistero. Spesso i personaggi emergono da sfondi notturni come quinte teatrali o da lattiginose temperie, e sono forti presenze, intangibili nella propria innocenza. Eppure quanta passione si cela nelle pieghe dei tratti, quanta tenerezza.

Amo l’arte di Serena Nono perché non assomiglia a nessuno, non deriva se non dal suo volto, che è altrove ed è casa natale, tronco d’albero ben piantato al suolo e concimato dalla vita. Forse è ciò che Heidegger definiva il dolore per la prossimità del lontano.

Quasi un camminare insieme, alla ricerca.

Ci si specchia nelle tele di Serena, ed è uno stato d’animo segnato da quel dolore e dalla grazia, anche nei paesaggi con il cane, in cui dilaga una stupefacente, conscia leggerezza, un canto al Creato.

Non trascuriamo, tuttavia, la dimensione semantica e costruttiva di queste opere: l’interiorità dell’artista, donatrice di senso e creatrice di valore, si coniuga con una capacità strutturale che appare lieve, talora incidentale, ma – come il volo di un ballerino – presuppone invece pratica e tenacia, dedizione e gusto compositivo. In questa pittura-pittura, così solida, materica da apparire aerea, il protagonista in superficie estrae ed espone la presenza del fondo. Anche il fondo è sguardo, soglia di Alice: ci invita a travalicare, ad entrare nell’altro che è in noi.

Improvvisa vertigine nell’assenza di vento.

Amo l’arte di Serena Nono, perché mi mette in discussione: nella luce e nelle ombre, soprattutto nell’incavo dei corpi, vedo metamorfosi meravigliose, colgo geroglifici stellari che mi parlano del mio essere nel mondo e dei rapporti che ciascuno di noi dovrebbe intrattenere nel suo giorno. L’esegesi dell’abbraccio, ad esempio, e la sacralità della benedizione, il valore del silenzio e la misura dell’assenza benefica. I suoi lavori sollecitano la mia parte migliore, sono riflesso trascendente dell’umano e profumano di pioggia e di luna.

Come Maria Zambrano, penso alla Santa Barbara del Maestro di Flemalle conservata al Prado: donne nella sostanza, materica e psichica, della vita; donne in se stesse. La loro è un’intimità permeabile, anima mundi.

Maggio 2016

Francesca Brandes