Il “Senza Poesia” di Nicola Golea e Serena Nono, quando dipingono la vita e la morte

Entro nello studio, e prima ancora di riuscire a vedere bene i quadri e di cominciare a parlare con i due artisti – conoscendo già il tema della mostra che aprirà tra poco allo spazio di “Emergency” alla Giudecca – avverto la forte presenza del colore blu. Bellissimi e vari toni di blu dipinti, i blu dei mari e dei cieli, i blu di vestiti e tanti fondi in questi quadri così intensi che mi circondano. 

Osservo meglio i nuovi quadri, sulla struggente tematica dei tantissimi rifugiati morti nel Mediterraneo e di coloro che invece, al termine di viaggi lunghi e tremendi sono riusciti ad arrivare sulle rive di una probabilmente tanto desiderata Europa, ma ai quali in genere aspetta un non meno triste destino di vita incerta, e spesso più che indegna.

Conosco e seguo il lavoro di Serena Nono da molti anni ormai, queste sue figure e i suoi ritratti che si sono rivelati centrali con il tempo, dopo e accanto i vari paesaggi e le architetture. 

Figure e corpi dipinti con tratti tanto sicuri quanto sensibili e delicati, spesso in colori piuttosto attenuati, marroni o grigi leggerissimi, a volte il bianco di una camicia candida. Sguardi spesso socchiusi, sognanti o abbassati, corpi e dorsi piegati e caratteristicamente trattati con il colare di molto liquido, quasi come da delle carezze con il pennello. Da sempre si avverte una forte dedizione dell’autrice verso i suoi soggetti, di cui parecchi potevano e potrebbero addirittura essere autoritratti. Si intuisce quasi sempre la ricerca di un dialogo con l’altro e una forte empatia, ma allo stesso tempo anche una delicata, quasi rispettosa distanza. E quando Serena Nono parecchi anni fa ha iniziato a fare anche del cinema, alla ricerca di un ulteriore linguaggio per avvicinarsi all’altro e per poter raccontare e farsi raccontare meglio delle storie altrui, ha in fondo continuato ad usare gli stessi modi delicati di tutta la sua produzione pittorica. 

Da anni conosco e ammiro anche l’arte di Nicola Golea, e ogni volta che mi si offre l’occasione, vedo con entusiasmo come la sua originale e in un certo senso anche molto artigianale pittura si evolva, nei mezzi e in sempre nuovi esperimenti, spinti da grande curiosità e voglia di fare e scoprire ulteriormente tecniche e temi. Ma anche lui vede, così mi vuol sembrare oggi, al centro la figura umana. Soprattutto trovo in lui una straordinaria e quasi imperturbabile sicurezza, la quale si fonde con una sincerità e una verità che mi convince, sia nei contenuti della sua pittura che nelle nostre discussioni – sulla politica, sull’arte e sulla vita in generale. Per me rimarrà per sempre il “pittore dallo stesso paese del grande Brancusi”, il contadino che creò la “colonna infinita”. 

E allora si aggiungono ora per ambedue gli artisti questi nuovi – o forse più correttamente, delle logiche evoluzioni di – quadri che parlano semplicemente delle tragedie umane più grandi che possano esistere.

Golea ha aggiunto ora alle sue gallerie di ritratti di personaggi noti o sconosciuti, e piuttosto misteriosi, di sempre, anche le gallerie dei rifugiati, alcuni di loro bellissimi personaggi – diversamente non potrei descrivere la ragazza con il suo delizioso vestito bianco e nemmeno alcuni dei giovani uomini o dei bambini, anche se con degli occhi spalancati dal terrore o abbassati e infinitamente tristi. Su questi quadri dai forti e luminosi colori troviamo anche in alcuni casi dei simboli che parlano da soli. Un mestolo vuoto, un cartellone con la commovente scritta “Open the Borders”, o una minuscola “Statua delle Libertà” in fondo all’orizzonte. Oppure appaiono delle sbarre alle quali si aggrappano delle mani verdi le quali sembrerebbero degli incredibili paesaggi della sofferenza. Ma almeno qui si tratta ancora, per la maggior parte, di migranti vivi, benché disperati e ovviamente rinchiusi.

Nel caso di Serena Nono invece vediamo adesso affogare alcuni dei suoi già citati corpi esili tra le onde, e vediamo anche gli sguardi terrorizzati di chi è ancora cosciente, mentre subito dopo – così sembra – i silenzi pacifici di una volta sembrano trasformarsi nei terribili silenzi della morte. Tutte queste teste, disegnate, abbozzate, singole e in grappoli, teste solamente, innumerevoli teste, attraversate dalle colate nere o bluastre dei colori. Quelle di persone che cercano di salvarsi a vicenda, quelle che non ce la fanno più, e al cui posto appare una deliziosa corona fatta di fiori, in mezzo ad una superficie di mare dipinto di un incredibile color blu.

Rispetto al titolo che Nono e Golea hanno voluto scegliere per la mostra mi trovo più che d’accordo. Nulla in teoria avrebbe tanta poesia come la pittura stessa, così bella, sensibile e vera come lo sono i quadri di questi due pittori. E nulla sarebbe così poetico come questo seducente blu celestiale di cui ho già parlato. Ma è altrettanto vero che nulla, assolutamente nulla è così privo di senso, quindi anche privo di ogni possibile poesia, come la morte inutile, malvagia e evitabile di un’infinità di persone in fuga, da null’altro che guerra, tortura e fame nel proprio paese, e poi della terribile indifferenza a riguardo da parte nostra.

O forse ci sbagliamo?

Il fatto è che quando si entra in una mostra d’arte, di solito si ha già una certa idea del contenuto, si ha già scelto di andarci, e di conseguenza ci si prende anche del tempo, per vedere, per sentire e alla fine per comprendere anche un contesto un po’ più complesso. 

Ci si fa delle domande, oppure delle domande rimarranno aperte e continuano nelle nostre teste e nella nostra memoria a ruotare e ad agire e cercare delle risposte. 

“Una persona che affoga nel Mediterraneo, è una persona che viene ammazzata”, dice mio fratello in maniera molto diretta, quasi cruda, quando gli faccio vedere alcune delle pitture per questa mostra. Alla mia domanda sulle potenzialità dell’arte di fronte a questo grande problema umanitario attuale e, come sembra, infinitamente difficile da risolvere o ancora prima da affrontare, mi risponde con grande fermezza colui che a Berlino da decenni ormai si occupa della qualificazione dei migranti e del loro successivo inserimento in una vita lavorativa: “certo, con la sua pittura Serena Nono fa vedere quello che succede e ci aiuta a riflettere sulla verità di questo fatto così inaudito.”

Sinceramente preferisco anch’io a credere nella forza dell’arte e nella sua possibilità, magari a piccoli passi, di cambiare ancora qualcuno e qualche cosa, a prescindere da tutta la sua infinita bellezza e poesia, sempre e comunque.

Agnes Kohlmeyer

Marzo, Venezia 2019