Pittura contro ideologia
di Paolo Flores d’Arcais

 

Serena Nono non produce ideologia: Serena Nono dipinge. Comunica attraverso linee e colori, attraverso tele e pennelli. È una notizia, e non da sottovalutare. Oggi infatti per “arte” (o morte della stessa, o critica, dissoluzione, ironia su, decostruzione, ecc.) si preferisce in genere spacciare una multiforme e ricchissima paccottiglia ideologica. Manufatti e artefatti, cioè, che potrebbero altrettanto bene (e forse meglio) essere semplicemente raccontati, detti sotto forma di idee, comunicati verbalmente, ideologizzati appunto, senza che manu e arte intervengano a costruirli in fatti. Qualsiasi mano potrebbe infatti compiere l’operazione del fare (forse dell’installare) tanto essa è ormai inessenziale in questa “arte”.
Non è vicenda nuovissima, questa dell’occupazione e colonizzazione del territorio del fare artistico da parte del dire ideologico, sia chiaro. Ma oggi è dilagante e rischia di diventare onnipervasiva (si guardi, ad esempio, o si legga poiché è equivalente, della recentissima Biennale veneziana). Ed è una sostituzione totalmente egemone nella critica/mercato, nel business/arte a cui tutti sempre più si piegano, forma inedita di servitù volontaria (non era il fare dell’arte l’ultimo ridotto di resistenza all’omologazione e al conformismo, perfino a costo di rischiosissimi qui pro quo?).
Avevamo già “visto” e già dato, in fatto di ideologia che sostituisce l’arte, con “arte povera” e “arte concettuale”, per restare in Italia e tanto per fare nomi (del resto la pop art americana è stata, tranne eccezioni rarissime, l’equivalente del realismo socialista in URSS: ideologia, appunto, invece che pittura. E non è un caso che il “pompierismo” stalinista trovi oggi un mercato in vergognosa crescita e domani magari cifre da capogiro).
Ideologia in-vece di arte, cioè l’esporre fisico di un’ideuzza che vale in quanto ideuzza, non in quanto sua traduzione materiale effettiva. Che è tutta nell’ideuzza, insomma. E pateticamente ridicola quanto a provocazione, ormai e comunque, dopo i baffi alla Gioconda e gli sberleffi dada. Le mura di Roma impacchettate per le pulizie del Giubileo fanno gridare qualcuno a “Christo” inteso come “artista”, ma rivelano che solo gli “impacchettamenti” di Christo non eccedono in nulla l’attività di restauro edilizio, e dunque devono la loro qualità di “arte” esclusivamente all’ideologia che viene loro appiccicata, e al compratore della reliquia dell’evento che la rende circolante sul mercato.
Una scatola con la scritta “merda”, un handicappato parcheggiato in una stanza, e infinite altre brillanti trovatine che esentano dal “fare” dell’arte, parlano solo in quanto trovatine, ideuzze. Viste e raccontate sono la stessa identica cosa (anzi: raccontate lasciano spazio alla gamma della fantasia della messa in scena possibile). La “merda” deve essere “d’artista”, esplicitamente, poiché solo quel dire, quell’ideologizzare, la definisce, in quanto oggetto (manu-fatto o fatto altrimenti) non ha nulla da dire.
L’ideologia al posto dell’arte è la felicità dei critici, ovviamente, che ormai in questo orizzonte sono i veri produttori di arte. Sono loro a conferire le qualità a ciò che altrimenti non sarebbe opera ma cosa, poiché quelle qualità risiedono tutte nel discorso che si riesce ad attribuire alla cosa (o installazione) altrimenti priva di sua propria qualità. In-differente.
L’ideologia al posto dell’arte è anche la felicità del mercato, che ha bisogno di “idee” nuove con cui alimentarsi fingendo che queste ideuzze siano ancora scandalose e possano trasgredire alcunché. Sono invece pura mimesi e talvolta parodia del meccanismo che domina nel mercato della moda, e obbediscono alla logica della borsa (corretto da quello del gioco d’azzardo. O viceversa): si scommette su un autore non perché lo si apprezza ma perché si punta sulla tenuta del circuito critico-galleristico che lo sostiene. Si vuole possedere l’opera come si possiede un certificato “future”, non più come bene d’uso, da guardare, ma come cifra nei bollettini finanziari, da seguire nelle sue variazioni.
Serena Nono, invece, dipinge. Comunica con linee e colori. Con tele e pennelli. Intensamente.
Fa arte. Lentamente stratificando. Raccontando il dolore, innanzi tutto. Come lo si può raccontare quando si fa arte: sublimandolo (parola tabù, ormai. Ma questo fa ancora l’artista). Esprimendo ma tenendo a distanza. Con-patendo ma aiutando a sopportare, poiché in un bel quadro il dolore, che resta dolore, diventa anche bello, non solo doloroso ma commovente. Il dolore che altrimenti travolgerebbe, se solo pensato fino in fondo (e pensato solo): si pensi solo a quante persone reali, in questo preciso istante, vengono straziate e uccise nella tortura, peggio di Cristo in croce e di ogni passione e crocefissione. Quel dolore viene comunicato, con-vissuto, raccontato, reso dunque conosciuto e in questo senso sopportabile (per chi non deve subire davvero). Ma non esorcizzato. Non rimosso. Anzi.
Ma Serena Nono, poiché dipinge solo il dolore dell’esistenza, dipinge anche la possibilità di contrastarlo, il barlume della gioia. La sua è (quasi) sempre pittura sacra, anche se solo ora accenna a misurarsi esplicitamente con questo tema, perché il sacro è oggi niente più dell’esistenza di ciascuno. Pietà. Deposizione. Senza Resurrezione, però. Semmai i barlumi della solidarietà, il colore che rompe la solitudine. L’orizzonte di questi quadri è imperscrittibilmente finito. Senza illusioni di salvezza, senza farse di trascendenza. Ma proprio per questo carico della inesauribile diversità di un esistere mai già scritto. Che contagia anche le cose, in quanto sempre e solo cose del nostro mondo, del nostro esistere.
I monumenti di Venezia, ad esempio. Le chiese (ma anche il mulino Stucky). Nulla di più impossibile da dipingere ancora. Tramandate e interpretate in tutti i modi possibili. Non più ulteriormente “inventabili”, si direbbe. E invece l’inesauribile dell’esistenza può viverle in modi ancora inediti. Incombono insopportabilmente prossime, e si annunciano da profondità lontanissime, le chiese veneziane di Serena. Echi spessi e opprimenti, più che monumenti. Incubi baluginanti nelle stratificazioni delle notti. Ma incubi amici, anche. Di una familiarità ogni volta inventata, creata, non semplicemente appresa. Presenze che gravano inappellabili, radicate nella terra e nell’acqua, e insieme si dissolvono nelle arie e nelle luci del nostro viverle (del vivere di chi le dipinge e offre questo vivere anche agli altri).
Serena Nono dipinge per chi ha ancora occhi per vedere.

Paolo Flores d’Arcais, da Pittura contro ideologia, dal catalogo Figure, Lineadombra libri, 2000