Serena Nono

Trasformando l’immagine in preghiera

Darkness. Silence that annulled mortality.

Luise Glück

Cosa dipingeremo, dunque? Le storie di Gesù che ci dicono della sua vita, che ci dicono di Dio. La possibilità di stare qui, caduchi e di sentirsi infiniti allo stesso tempo.

Serena Nono

S’intitola Venezia e le maschere il cortometraggio realizzato da Serena Nono nei giorni di maggio 2020 quando ai cittadini fu consentito di uscire di casa dopo i mesi di confinamento imposto dalla pandemia. Girato per lo più lungo le fondamenta e le calli della sua Giudecca, salvo rapidi passaggi nei luoghi storici già deputati al turismo, il film è molto più che un breve documentario sul ritorno alla vita sociale. Nessun intento descrittivo guida lo sguardo dell’artista, piuttosto un racconto fatto di singole scene di vita all’aria aperta, di volti in primo piano alterati dalle «maschere» ma non per questo meno espressivi, di qualche interno dei negozi con le persone a debita distanza, di molto cielo ed acqua. Racconto scandito su un ritmo lento che misura lo stupore dello spazio ritrovato, del muoversi e del sostare come in attesa di qualcosa a cui si era persa l’abitudine. Ci sono immagini eloquenti di anziani che passano lentissimi a marcare un silenzio che si portano dentro, e di animali: molti cani ovviamente, ma anche un gabbiano che proprio all’inizio del film sembra annunciare col suo grido stridulo l’evento atteso e persino un gruppetto di papere che trotterellano dietro al loro padrone. Ogni scena è compiuta in se stessa e si somma semplicemente alle altre lungo il filo dell’accompagnamento musicale di Monteverdi, quasi istantanee in movimento o grani di un rosario che scandiscono pause di piacere per la bellezza della vita ritrovata, mescolate alla consapevolezza di una precarietà che interroga il senso della vita.

Nel tempo in cui vedere equivale sempre più diffusamente a visualizzare, come se l’occhio altro non fosse che uno strumento passivo per collezionare immagini casuali disordinate indifferenziate, Serena Nono lavora con pacata costanza per offrire a sguardi attenti meditate visioni – si tratti di pittura, di scatti fotografici o di film –, dalle quali traspare ciò che mi appare appropriato chiamare spirito di preghiera. Che è un certo modo di «stare» nel mondo in relazione a se stessi, agli altri, alle cose; un certo modo di sentire il mistero delle creature. È così sin dal suo inizio, a metà degli anni novanta, già prima che sullo scorcio del Novecento alcune sue «figure» assumessero un’esplicita postura orante e prendessero forma i cicli della Passione.

Direi che Serena Nono dipinga per dare espressione a una spiccata sensibilità per tutto ciò che nel mondo si manifesta; ciascuna realtà nella sua proprietà d’essere, ma poste tutte sullo stesso piano. La figura rappresentata – umana naturale o manufatta – testimonia della disposizione dell’artista attenta a cogliere il segreto che ciascuna esistenza è sul punto di rivelare. Non so quanto su questa precoce propensione alla relazione con l’altro abbia in qualche modo influito una vicenda familiare d’eccezione, di certo Serena Nono ha cominciato a dipingere partendo dal suo modo di sentire la condizione umana, a prescindere da tutto quanto si agitava nello snervato universo delle correnti artistiche sul finire di un secolo iniziato con la promessa cancellata di un nuovo grande inizio.

Di qui la ricerca di una forma che, dopo qualche incertezza iniziale, ha puntato decisa sulla figura rappresentata nella sua specificità corporea, nella particolarità del movimento o del gesto che rimanda a ciò che non è dicibile. Una pittura che non mira alla compiutezza della rappresentazione; annuncia piuttosto ogni volta un desiderio di pienezza che manca e l’attesa di un compimento. Né è questione solo della figura umana. Allo stesso modo due sedie e un recipiente s’impongono su un fondo impenetrabile o un libro sta tra le mani, due alberi vivono in un cielo di nubi o lo sguardo di un cane interroga il mondo.

Emblematici di questo inizio sono alcuni oli del 1995-96. Vi figurano presenze che emergono appena da fondi scuri, per lo più isolate: teste, dorsi, figure a metà, volti, mani congiunte o a coprire il volto, corpi immersi in sonni profondi, raccolti in se stessi o tesi spasmodicamente verso l’alto. L’impressione che se ne ha, rafforzata dalla nudità, è di un difficile prender forma dell’umano emergente da una materia densa che a tratti «cola» sui corpi. Uno stato primordiale delle cose in cui i viventi stentano a prendere coscienza di sé; appaiono precari e bisognosi di contatto fisico. Si possono così osservare figure che si cercano nel buio, o altre che si volgono a fissare qualcosa dietro di loro: un’apparizione che allo spettatore resta invisibile. In queste opere circola uno stupore di esistere, un lento prendere coscienza della propria corporeità e se il volto si leva finalmente in piena luce lo sguardo interroga muto il silenzio.

Vero è che in lavori successivi i corpi iniziano a definirsi nei contorni e a guadagnare in rilievo ed espressività; permane nondimeno lo stato d’isolamento e di anomia anche laddove le opere sono designate come ritratti – e in qualche caso si tratta evidentemente di autoritratti. Le figure seguitano a offrirsi nel loro stato creaturale, sono chiamate a raffigurare modi di sentire la condizione umana, piuttosto che a comunicare tratti caratteriali o psicologici. Lo si avverte in particolare in alcuni ritratti di bambino, i cui sguardi interrogano l’osservatore con singolare distacco.

Ciò che conta è la pura presenza; non dunque una rappresentazione compiuta della realtà, ma la ricerca insistita, continuamente ripresa di ciò che essa cela e rivela. È il caso di un ritratto riconoscibile come ispirato alla figura di Simone Weil e che tuttavia non si offre all’osservatore come personaggio, lo rimanda piuttosto a se stesso, apre un vuoto nella sua coscienza. O, ancora, il ritratto di due Fratelli colti in un abbraccio intimo quanto distaccato, che genera un sentimento di sospensione, d’incertezza su cosa si stia guardando.

Inutile qui ricercare ascendenze artistiche in assenza di riferimenti alle tendenze contemporanee. I richiami di qualche critico alle correnti del primo Novecento sono legittime, ma più per prossimità formali che non per dar conto della specificità della ricerca artistica di Serena Nono. Personalmente sarei piuttosto portato a scorgere nel suo lavoro il permanere di qualcosa dello sguardo di Cézanne: quell’ostinato voler vedere al di là dell’immediato sensibile; lezione rimasta viva nel corso del Novecento malgrado le tante dispersive fughe in avanti. Conviene dunque prendere atto di un’anomalia, come sempre quando ci si assume il rischio di cominciare da se stessi con decisione ferma quanto umile.

Una chiave di accesso privilegiata a questa singolare ricerca artistica mi sembra per l’appunto offerta dalle figure che sin dall’inizio alludono discretamente al pregare, come nella raffigurazione di due mani giunte che occupano l’intero spazio di un dipinto del 1995, oppure coprono i volti con gesto ora quieto ora agitato. Sono annunci di un tema che troverà modulazioni via via più espressive di un sentimento della vita destinato altresì a riflettersi presto nei quadri che ripercorrono la storia della Passione – di cui la Pietà del 1996 è una splendida anticipazione.

Tra il 1998 e il 2003 hanno visto la luce due cicli della Passione, il secondo dei quali ripercorre le stazioni tradizionali della Via crucis, mentre il primo, articolato in venti quadri, si sofferma principalmente sulla partecipazione alla sofferenza del Cristo da parte della madre, di Maria di Magdala, di altre donne anonime deputate a impersonare figure della vicenda evangelica, e dell’unico discepolo disposto ad accompagnare Gesù fino alla fine. Ne viene un ampliamento dello sguardo non più concentrato soltanto sul protagonista che restituisce in parte la coralità dei racconti evangelici con una forte accentuazione del ruolo delle donne; sono esse deputate ad esprimere nelle ripetute rappresentazioni della deposizione un dolore in cui si fondono pietà e tenerezza amorosa.

Sull’importanza che la figura femminile ha nel suo lavoro, in particolare nel racconto della Croce, Serena Nono si è trattenuta in uno scritto che accompagna un volumetto a più voci illustrato da suoi dipinti in cui ci s’interroga circa la possibilità per la creazione artistica di dare forma all’inesprimibile. Importanza duplice, poiché nelle donne che accompagnano il condannato l’artista coglie in modo eminente «un saper “stare” che subito si traduce in un dare-darsi. Una sorta di imitazione di Cristo da parte di chi fisiologicamente è costruito per far spazio a un’altra creatura. A chi dimentica sé per amore dell’altro». E perché convinta che sia proprio il tema dello «stare» a caratterizzare il racconto della Passione: «Saper stare. Stare anche nel male, patire la vita rivolgendo lo sguardo alla speranza. Senza fuggire, né cadere nell’immaginazione. Senza gridare il proprio dolore e la propria incapacità di comprendere, ma offrendo il cuore e il perdono».

C’è qui un’intuizione significativa del modo proprio alla concezione cristiana del patire ispirata al tema della Croce, simbolo di una verticalità impossibile se non passando attraverso l’accettazione della morte, che in quegli stessi anni Serena Nono ha espresso altresì in alcune figure tese come a voler congiungere terra e cielo, oppure colte in un gesto a braccia aperte, il volto assorto nell’invocazione, che a me ricordano parole dell’ultima preghiera di Etty Hillesum: «A volte, quando me ne sto in un angolino del campo, i miei piedi piantati sulla terra, gli occhi rivolti al tuo cielo, le lacrime mi scorrono sulla faccia – unica via d’uscita per la mia emozione interiore e la mia riconoscenza».

Passione divina e umano patire si congiungono in effetti in questi dipinti. A spogliarli dall’aura sacrale contribuisce il taglio delle immagini, ridotte all’evidenza di espressioni dolorose che accomunano parimenti le figure rappresentate. Come scrive l’autrice, «l’enfasi non è posta sulle ferite e sul sangue», ma essenzialmente sulla solitudine del Cristo e dei seguaci «che con lui sono membra di un solo corpo e, nella Passione, di un corpo solo». Non dunque una rappresentazione che inviti a un moto di pietà o al contrario favorisca una visione distaccata; piuttosto un’espressione di pura umanità incorporata nel segno pittorico che interroga l’orante e da lui si lascia interrogare.

Al di fuori di questa relazione tra l’immagine prodotta nel silenzio e chi la contempla in un silenzio interrogante non c’è verità e non c’è bellezza. In questo senso l’arte di Serena Nono è eminentemente religiosa a prescindere dal soggetto rappresentato. Storia sacra e vicenda profana sono un tutt’uno. Lo si coglie bene sfogliando il catalogo di una mostra d’inizio millennio impaginato in modo da comporre un dittico, quasi una pala di altare che rappresentasse su un lato le figure dell’umano cercare, patire, invocare e sull’altro le suddette scene della passione dell’uomo che tutto ha assunto, ricapitolato in sé e condotto dal buio ad una luce che trasfigura la morte. Allo stesso modo una mostra di poco successiva proponeva il nesso inscindibile di preghiera e silenzio, mescolando alcune figure del ciclo della Passione riproposte senz’altro come «figure» ad altre per lo più oranti o immerse in uno stato di attesa. Riassuntiva di questo stretto nesso dell’umano e del divino è l’esposizione allestita nel 2010 ad Assisi nel Museo della Porziuncola, che proponeva in uno stesso spazio le stazioni della Via crucis accompagnate da testi di Simone Weil, mentre ogni cella del Conventino ospitava una figura orante.

Il tema della relazione con Dio in forma di preghiera e i racconti evangelici della Passione hanno dunque occupato a lungo la riflessione e il lavoro di Serena Nono. Direi che ne hanno definito la cifra in modo permanente. Se ne ha una verifica seguendo le opere e i progetti espositivi che hanno scandito la sua ricerca spirituale ed estetica fino ad oggi. Non più soltanto sul versante della pittura, poiché ad essa e in stretto rapporto si è aggiunta dal 2007 la produzione cinematografica. Trovo annunci di questa non facile congiunzione nei lavori a cui ella si è applicata dal 2004 al 2006; un breve periodo di passaggio destinato ad ampliare la sua scena interiore con temi e motivi nuovi. Si tratta in particolare di un dittico con l’Ultima Cena e la Cena di Emmaus dipinti su commissione e, per altro verso, i quadri a soggetto paesaggistico realizzati durante una residenza artistica sull’isola norvegese di Nådøy.

I due grandi dipinti per una cappella a Giulianova, diversamente da quelli appartenenti ai cicli della Passione, si attengono all’impostazione tradizionale delle scene, verosimilmente per facilitarne la lettura da parte dei fedeli. In ogni caso, ora le figure esprimono la gestualità di persone semplici e il racconto ha un movimento ampio, che esalta il motivo dell’unione dei discepoli col Cristo tramite la condivisione del pane. D’altra parte i dipinti tra mare e cielo a Nådøy spostano lo sguardo dalla figura umana col suo carico di dolore alla bellezza inafferrabile della natura.

Di questo cambiamento di visione mi sembra abbiano risentito sia il felice ciclo delle fanciulle in vesti bianche realizzato nel 2008, sia il coevo dittico cinematografico che vede in scena un gruppo di senza dimora. Le prime – rivestite di biancheria d’epoca applicata alla tela che fa da base per altri colori – si staccano da fondali scuri con la levità inquieta della fanciullezza approdata all’adolescenza. C’è attesa in queste figure e presentimento di un approdo difficile all’età adulta. C’è altresì narrazione di un piccolo mondo tutto al femminile, mondo di possibilità vagamente intuite o, meglio, sentite fisicamente, che si esprimono in slanci e sguardi in tralice, nell’esposizione impacciata dei corpi e in ripiegamenti inattesi.

Analogamente il primo film, a carattere documentario, si sofferma sulle figure degli Ospiti di una casa alloggio per i senza dimora, rappresentati ciascuno nella sua problematica singolarità e nel tessuto fragile dei rapporti di comunità. La regista come la pittrice è intenta a cogliere nella gestualità, negli sguardi, nel parlare faticoso e frammentato, carattere e destino di ciascuno. Brandelli di un passato travagliato danno spessore a ciascuna figura con la stessa incisività con cui sono colte quelle espresse in pittura. Le inquadrature delle persone chiamate a dire di sé sono fisse e non meno eloquenti dei nuovi ritratti che Serena Nono esporrà di lì a poco nell’ambiente raccolto dell’Oratorio di San Ludovico a Venezia. In entrambi i casi, inoltre, è evidente l’intento di stabilire, col montaggio filmico o espositivo, un filo conduttore che dia unità narrativa. Racconti, beninteso, che non mirano ad un esito dimostrativo; al contrario riconducono continuamente lo spettatore alla singolarità delle esistenze. Nel film si aggiunge tuttavia lo sfondo aperto, luminoso della laguna che allevia in parte la durezza delle vicende. Mentre il compito di dare unità poetica al racconto è affidato felicemente all’esibizione claunesca di uno degli ospiti, che mima comportamenti e immaginazioni della vita di strada.

Due anni più tardi i protagonisti del documentario sono stati chiamati ad interpretare Via della Croce, versione cinematografica del racconto della Passione che sin dagli inizi aveva trattenuto l’attenzione di Serena Nono. Il film alterna come per un atto liturgico la lettura del racconto evangelico con la messa in scena delle stazioni tradizionali della Via Crucis, commentate dagli attori stessi con riflessioni occasionali sul dramma religioso, più spesso con ricordi o considerazioni sulla propria condizione attuale. Ma senza che ne consegua alcun tentativo di accordare la scena sacra con quella tutta umana; l’unico collegamento è offerto dal duplice ruolo, attoriale e personale, di coloro che vi sono coinvolti, che ha tuttavia piuttosto l’effetto di distanziare. Come in certi dipinti di Giovanni Bellini i due piani restano separati malgrado la prossimità. Non c’è unione possibile, tuttavia l’artista può accostarli poeticamente. Ciò che è rappresentato in primo piano resta metafora assoluta dei destini individuali, che si riflettono nelle stazioni della via della croce segnata da cadute abbassamento compassione, lungo la quale a Gesù è dato il volto di diverse persone.

Come si è detto, Serena Nono aveva già fornito una rappresentazione pittorica della Via crucis su cui è ora il caso di soffermarsi per un confronto con la versione filmica. In quel caso, pur attenendosi alla scansione in quattordici stazioni, è evidente l’intento dell’artista di imporre una forte unità drammatica alla sequenza di immagini interpretata come «una passione della luce». Lo ha fatto mettendo all’inizio la preghiera di Gesù nell’orto al posto dell’episodio della condanna in modo da muovere da una situazione di tenebra fisica e morale, a cui segue nei quadri successivi una luce grigia, malata che fatica ad imporsi e al momento della morte precipita in pieno giorno nell’oscurità, da cui riemerge appena nel crepuscolo della deposizione per immergersi subito nella notte della sepoltura. Solo all’ultimo, in una «stazione» aggiunta a quelle tradizionali la luce torna ad investire una mano piagata che allude alla resurrezione.

Nel film la via della croce ha un tutt’altro registro. Contenuto e sequenza delle stazioni sono rispettati solo in parte. Ora il racconto, che si attiene alla passione secondo Giovanni, parte con la vivace rappresentazione del processo e della condanna affidata al monologo di un Ponzio Pilato esagitato, una sorta di prologo in chiave farsesca. Ma subito dopo il tono si fa drammatico con la flagellazione e il cammino penoso della croce scandito da una serie di tableaux vivants nei quali domina il contrasto fra le figure femminili e quelle degli aguzzini. Il tutto avviene ora in piena luce lungo le calli di una Venezia assolata, salvo l’oscurarsi del cielo per un improvviso temporale al momento della morte. Il finale interpreta con grande efficacia la scena giovannea del sepolcro vuoto e del riconoscimento del risorto da parte di Maria di Magdala. Un esito dall’andamento fiabesco che capovolge il crudo cinismo dell’inizio.

È questo altresì il punto in cui i due piani della costruzione filmica si toccano in un momento di sospensione, fissato nelle espressioni raccolte dei volti degli attori ripresi fuori scena. La morte del Cristo interrompe il corso inerte del tempo, cosicché ciascuno è ricondotto a se stesso, a ciò che si è e che manca; poi la promessa della resurrezione apre inaspettatamente alla possibilità di ritrovarsi e ritrovare il senso della vita anche nella peggiore circostanza. È il rovesciamento impossibile in cui è presente il germe e il senso del pregare cristiano, che Serena Nono intende drammaticamente come «lotta, invocazione, domanda, paura, dolore, stupore, contemplazione, lode, che ci fa entrare in noi per farci uscire da noi, dall’ingombro del nostro io».

Ciò su cui l’artista insiste è che la rappresentazione del sacro non si esaurisce nella messa in scena di eventi mirabili a scopo illustrativo, pedagogico o devozionale. Il suo segno artistico tende a trascendere l’oggetto raffigurato, punta ad aprire lo sguardo sul mistero della condizione umana sospesa tra visibile e invisibile. La forma impressa alle sue figure accomuna ogni espressione del creato, posto sotto l’insegna dell’incarnazione. Contrariamente a ciò che potrebbe apparire a uno sguardo affrettato, la sua pittura rifiuta il rifugio in una interiorità astratta e separata dal concreto fluire della vita.

Se ne ha conferma dai lavori degli ultimi anni fino ai più recenti, nei quali è la stessa vicenda umana: personale, storica, ambientale ad assumere la misura del sacro. Espressa – oltre che con lo scavo proseguito nell’arte del ritratto – in tre cicli pittorici: il ciclo delle figure portatrici di lampade, il ciclo dedicato al mondo della natura e, da ultimo, il confronto doloroso con la condizione dei migranti. Nel primo caso è di nuovo protagonista la relazione tra luce e oscurità, essenziale alla pittura così come la relazione tra suono e silenzio per la musica o per la poesia e per la scultura tra pieno e vuoto. Una modesta ma viva sorgente luminosa disegna appena le figure rilevandone tratti diversi secondo la posizione della lampada. Difficile stabilire se quelle luci, precariamente tenute in punta di dita, siano servite a guidarle fuori dal buio o siano lì perché sia consentito a noi di vederle come per una manifestazione che ci interroga sulla contraddittorietà dell’esistente.

Di questo mistero delle cose ci dicono a loro volta i molti quadri nei quali Serena Nono si è dedicata ad una osservazione ravvicinata della natura in assenza della figura umana: alcune cupe marine attraversate in solitudine da un cane, quindi raffigurazioni insistenti di soggetti vegetali: alberi su sfondi remoti o piante raffigurate in dettaglio. Tra questi ce n’è uno che a me sembra nascondere un accesso al segreto della sua arte. In un paesaggio di neri alberi sottili che intrecciano i loro rami spogli procedono le siluette di due nere figure raffigurate di spalle, un monaco e un cane. Non c’è una meta da raggiungere; oltre l’orlo di un terreno brullo incombe uno sfondo piatto di un bianco sporco che vieta di pensare al cielo. Ne viene un sentimento di solitudine e sospensione potenziata dalla citazione dell’umano insieme a quella dell’animale e della vegetazione. Ogni cosa, posta così sullo stesso piano, si riconosce nella sua piccolezza davanti a ciò che eccede ogni cosa; consapevolezza in cui Serena Nono coglie la condizione per la relazione con se stessi e con ogni altra realtà circostante: «Si può essere vicini nel riconoscersi piccoli, senza potere, nell’impossibilità».

Tali sono, non per scelta ma per le condizioni di vita imposte da violenza e miseria, i migranti, che oramai occupano buona parte dell’immaginario sociale nei paesi ricchi, nonché la preoccupazione dei governi europei propensi a far fronte con una logica di guerra a una realtà imponente. I Migranti di Serena Nono sono soprattutto teste innumerevoli stipate su grandi fogli, o volti vaganti nel bianco della carta, ciascuno con la sua espressione di paura, sgomento, invocazione, rassegnazione, attesa, che i neri e i blu rendono tanto irreali quanto incombenti. Apparizioni da incubo, ombre proiettate su mondi che si vorrebbero civili, ordinati, illuminati, benestanti e ben decisi a ignorare un passato non molto lontano di povertà. È un conflitto profondo destinato a mutare il corso della nostra storia quello raffigurato in queste opere, ancor più eloquenti nella loro essenzialità di altre che costringono a misurarsi direttamente con l’atrocità della morte in mare.

Non so quali reazioni le esposizioni recenti di questo ciclo abbiano suscitato, particolarmente in quanti avevano avuto modo di seguire il percorso artistico di Serena Nono, rispetto al quale potrebbe essere apparso episodico, un gesto di testimonianza. A me sembra al contrario che esso vi sia pienamente iscritto ed anzi ne renda esplicita la cifra. Perché ciò che accomuna e dà forma alla sua opera, comunque coniugata, è qualcosa che precede l’intenzionalità; è piuttosto un modo proprio di stare nell’universo delle realtà animate e inanimate; è un prestare ascolto. Serena Nono ama chiamare il suo gesto artistico «pittura della relazione», che sposta necessariamente l’attenzione da se stessi all’esperienza del limite, e perciò della precarietà, dell’incompiutezza che accomuna ciascuno a tutto che ciò che esiste. È questo a muovere la sua arte piuttosto che un presupposto estetico o sociale; inevitabilmente, se il «darsi» precede e condiziona la possibilità di comprendere.

Era dunque nell’ordine delle cose che Serena Nono incrociasse l’opera di Simone Weil e se ne nutrisse. Ve ne sono tracce chiare nel suo modo di dare forma allo spessore della realtà, di far sentire la gravità che governa le anime così come la natura in tutte le sue  manifestazioni, di tenere insieme l’impressione sensibile e il sentimento della necessità, di suscitare attorno alle sue figure un alone di attesa silente. Effetti che possono conseguire soltanto da una forte capacità di attenzione a ciò che si assume ad oggetto della propria arte, che altrimenti si ridurrebbe a pura occasione per l’affermazione di sé. Potremmo perciò leggere la messa in scena cinematografica di Venezia salva come un omaggio alla grande pensatrice, omaggio discreto considerata l’essenzialità dei mezzi adoperati per la realizzazione; ma direi che c’è molto di più. Il film testimonia altresì di una consonanza con il modo proprio a Simone Weil di indagare la vita degli uomini inscritta nel testo del mondo, a cui soltanto un’opera poetica avrebbe potuto dare compiutamente forma. La laboriosa composizione della tragedia ne era stato l’esperimento rimasto incompiuto per l’improvviso concludersi della sua vita. Non meno significativo per la propria arte è il modo con cui Serena Nono ne ha dato una lettura che pone l’elemento drammaturgico al sevizio della propria sensibilità pittorica.

Affidata alla recitazione piana di un gruppo di amici, tra i quali hanno di nuovo un ruolo principale alcuni residenti della Casa dell’Ospitalità, la messa in scena è concepita in modo tale da mantenere lo spettatore in sospeso tra finzione e realtà grazie agli stacchi in bianco e nero all’inizio e tra un atto e l’altro del dramma, in cui s’intrecciano riferimenti alla congiura seicentesca oggetto dell’opera e accenni al pensiero filosofico di Simone Weil sullo sfondo di momenti di lavorazione del film. Come negli esperimenti precedenti, in mano a Serena Nono la macchina da presa resiste alla convenzione dell’opera chiusa in se stessa, più o meno efficacemente recitata e consegnata all’immaginario collettivo. Tende piuttosto a incarnare l’opera in vite reali, che sono quelle degli attori e degli spettatori parimenti indotti a misurarsi con il sentimento della bellezza che salva, nella misura in cui conduce a riconoscere come reale ogni vita e l’ambiente umano che l’avvolge e sostiene.

Il potere della bellezza contenuta nella parola poetica di Simone Weil passa così nella bellezza sensibile dalle immagini filmate, sostenute dal controcanto di scelte musicali perfette. Tuttavia nel difficile comporsi di parola, immagine e suono è l’elemento visivo a imporsi; massimamente grazie alla presa che il contrasto di oscuro e luminoso esercita sullo spettatore rendendo accessorio il contenuto intellettuale di una parola che nel film non si risolve in espressione poetica. Serena Nono ha qui intuito il referente implicito della tragedia weiliana, che è il percorso tormentoso attraverso la notte oscura cantato da Giovanni della Croce per giungere alla vetta luminosa del Monte Carmelo. L’oscurità che sin dalle prime scene avvolge nel film i congiurati, nella quale Jaffier entra volontariamente e dalla quale soltanto all’ultimo esce andando incontro a una morte accettata purché viva la città: «A mes yeux bientôt sans regard que la ville est belle!». È questo contrasto a scandire la sequenza delle scene culminante nel tramonto verso la notte che dovrebbe perdere la città: la luce che si spegne sulla laguna si è accesa in Jaffier, e ne muta l’aspirazione al potere in un desiderio di bene che lo getta in balìa del potere. È ancora una volta una storia della passione a occupare l’arte sensibile di Serena Nono, impregnata dei valori di un classicismo passato per il travaglio del Novecento. La poesia così dolorosamente realistica della sua pittura può essere intesa soltanto prima o aldilà delle ingannevoli promesse di un mondo in progresso; ha il valore inestimabile di un arresto.

Giancarlo Gaeta, dal volume : In attesa del regno Il Cristianesimo alla svolta dei tempi, Quodlibet ed. 2022